Il budget dell’intelligenza contestuale e della glocalizzazione.
A partire da capolavori della letteratura come “Il Milione” di Marco Polo e “Cuore di tenebra” di Conrad, alle pellicole cinematografiche come “Mission” diretto da Roland Joffé e “Gran Torino” di Clint Eastwood, la conoscenza dell’altro attraverso la sensibilità inter-multiculturale è da sempre al centro delle relazioni umane. Citando Martin Luther King “Gli uomini si odiano tra loro, perché si temono, e si temono tra loro perché non si conoscono”. Il problema sempre più incalzante dell’immigrazione dai paesi africani e i riflessi sociali e politici che questi fenomeni internazionali stanno provocando ovunque ci impongono di riflettere sulla dimensione culturale del viaggio e dell’incontro oltre la loro accezione spazio-temporale, assumendo di base un approccio comportamentale GLOCAL come suggerisce da tempo il sociologo Zygmunt Barman, per superare il tentativo di una socializzazione superficiale, imparando costantemente a sviluppare un’INTELLIGENZA CONTESTUALE, ossia la capacità di capire i limiti delle nostre conoscenze e di adattarle a un contesto differente da quello originario a cui siamo abituati. È così che oggi le competenze tecnico-professionali (hard skill) lasciano sempre più spazio a competenze interculturali emotive e sociali (soft skill) atte a comprendere, a leggere il contesto interno ed esterno in cui ci troviamo.
La tensione tra l’integrazione globale e la comprensione-sensibilità locale è diventata indispensabile in politica, nell’arte, nella governance territoriale, nelle aziende, nel turismo, soprattutto quando si erogano servizi. Nel maggio scorso, durante una site inspection in un hotel di catena 4 stelle di Milano a vocazione internazionale, la referente congressuale mi racconta, con un certo disagio e imbarazzo, un episodio occorso qualche giorno prima al bar e ristorante dell’hotel, allorché un cliente arabo seduto al bar chiede un whisky prima di andare a cena. Il cameriere prende l’ordinazione e torna al tavolo con il bicchiere di whisky. A seguire lo stesso cliente si reca al ristorante e ordina per cena del vino rosso, che arriverà al tavolo a temperatura ambiente. A questo punto il cliente sbotta in uno scatto d’ira e incolpa il personale dell’hotel di disservizio, incompetenza, negligenza e discriminazione razziale… ma che cosa è successo di così grave? Il cliente arabo lamenta che il whisky non è stato servito con qualche stuzzichino e che il vino rosso è troppo caldo. Di fatto in Italia il whisky prima di cena non prevederebbe appetizer, così come il vino rosso si serve generalmente a temperatura ambiente, ma vista da un’altra prospettiva non siamo tutti uguali e nei Paesi di origine le cose potrebbero andare diversamente. Come non pensarci? Un maître o un cameriere di fronte a una cultura “diversa” dovrebbe porsi delle domande, senza dare per scontata la sua competenza “tecnica”. In questo caso, il “professionista” di turno, in assenza di una formazione vera e propria, avrebbe potuto prevenire il complaint domandando al cliente straniero se desiderasse il whisky con qualcosa accanto e assicurandosi che il vino rosso a temperatura ambiente potesse essere di suo gradimento. Mentre le cosidette “hardware skill” sono relativamente facili da raggiungere e gestire, le “software skill” richiedono un atteggiamento più accurato e sensibile. Possedere e dimostrare competenze inter-multiculturali significa imparare costantemente nuovi comportamenti e saperli adottare efficacemente in funzione delle varie situazioni e dei contesti in cui ci troviamo, pretendendo di ricevere un FEEDBACK. Ne è testimonial il top manager francese Luc Minguet, responsabile acquisti del Gruppo Michelin in Francia, che nonostante la sua alta esperienza manageriale internazionale maturata in altri Paesi come Regno Unito, Olanda e Spagna, quando si trovò a diventare COO della divisione camion Michelin negli USA dal 2000 al 2007 scoprì a sue spese un gap di sensibilità culturale nell’interazione con gli altri e nella gestione delle risorse e del team: mentre in Francia e in Europa ci si sforza di identificare ciò che non va nella performance di un collaboratore dando per scontato il buono, per un dipendente americano questo approccio è devastante, perché la priorità sta nell’identificare i risultati positivi, addolcendo quelli negativi. Oggi Minguet quando incontra dei nuovi colleghi provenienti da altri Paesi si preoccupa di specificare “Ecco come do feedback nella mia cultura. Come funziona nella vostra?”
La Cultura è un concetto dinamico e la formazione inter-multiculturale è prima di tutto un PROCESSO-SISTEMA MENTALE costante e continuo, un viaggio che non ha fine nel nostro percorso di vita personale e professionale. Se nelle aziende si inserisse nel business plan il BUDGET costi-ricavi della leadership e della comunicazione interculturale si quantificherebbero le perdite o i benefici tangibili con reali risvolti economico-motivazionali, minimizzando spiacevoli sorprese ed errori irreparabili, finanziariamente molto costosi. Il suggerimento vale anche per tutti i protagonisti (planner, supplier, corporate) dell’industria degli eventi e congressi, del turismo e dei viaggi, laddove la conoscenza delle lingue (che sia una lingua franca o una lingua locale) non garantisce certo la performance, semmai la supporta e l’agevola. Occorre parlare oggi di FLUIDITÀ CULTURALE come abilità indispensabile da inserire nella strategia di marketing e comunicazione, partendo dal riconoscere che non si sa o non si sa abbastanza. Nella mia esperienza di planner, formatrice e consulente aziendale noto costantemente una certa superficialità nella gestione di eventi, riunioni, convegni, accoglienza di persone appartenenti a culture diverse, anche da parte di “brand importanti”, che finiscono per sottovalutare o dare per scontato particolari e dettagli che conducono a banali errori o clamorose gaffe! Le motivazioni? Risparmio economico da una parte (in organizzazione, servizi, formazione, personale qualificato), dall’altra l’esigenza di lavorare e ottenere risultati a breve termine.
Misurare il grado di consapevolezza e conoscenza della nostra preparazione interculturale rispetto ad altri Paesi, culture e modalità comportamentali è da annoverare sicuramente nei megatrend 2030 che hanno e avranno un impatto significativo sulla società e sull’economia. Per il momento, in mancanza di un vero e proprio piano strategico, possiamo usufruire di strumenti qualificati; uno dei più efficaci e completi è il Culture Active Tool, creato dall’inglese poliglotta Richard Lewis per la community associativa internazionale MPI (Meeting Professionals International). Tuttavia anche questo strumento, utilizzabile esclusivamente dai membri dell’associazione, resta fine a se stesso se non è inserito all’interno di un processo formativo-mentale individuale e di squadra.
A cura di Olimpia Ponno
Romana, laureata in Lingue alla Sapienza, un Master in Marketing e Management a completare la formazione unIversitaria, dal 1992 al 2007 ha ricoperto ruoli manageriali nel settore dei servizi fieristici, congressuali, alberghieri a livello nazionale e internazionale per Fiera di Roma, SGM Conference Center, Jolly Hotels (oggi NH), Il Ciocco Hotel & Resort (oggi Mariott), Domina Hotel Group. Dal 2007 è consulente aziendale, gestisce l’omonimo studio professionale di comunicazione, marketing e formazione con una specializzazione in Hospitality & Meeting Industry. Docente in numerosi corsi di formazione, aziendale e post universitari, opinionista con diverse pubblicazioni all’attivo, è stata presidente di MPI Italia Chapter, capitolo italano di Meeting Professionals International.