Grazie a Linkedin nelle scorse settimane ha fatto il giro del mondo la tabella dei compensi standard per i cosiddetti influencer, ossia per coloro che attraverso un’articolata azione mediatica hanno il potere di incrementare del 520% la propensione all’acquisto di un bene o di un servizio.

Sottolineo questa percentuale: cinquecentoventi per cento. Al di sotto, non sei un influencer anche se dici di esserlo.

Allora, questa è la tabella, divisa per social e per numero di fan. C’è poco da commentare, è chiarissima. Guardatela bene e poi seguite il ragionamento che vi propongo.

 

Ho sempre detto che, mentre capisco i tantissimi che menano vanto di essere influencer (vanitas vanitatum et omnia vanitas), sono assai meno incline a capire quelli che li ritengono tali. È come un gigantesco incantesimo collettivo, probabilmente indotto dalla crisi economica che taglia i budget per gli investimenti veri. Pare sufficiente esibire un giro di follower superiore ai quattro zeri per mandare fumo negli occhi a clienti potenziali anche altolocati, che in quei quattro zeri vedono il bacino d’utenza giusto, capace di dare alle proprie vendite l’impennata decisiva.

Ma è un mito. Un mito assurdo. Da incantesimo, appunto.

Ora ve lo smonto in quattro mosse.

Andiamo alla seconda riga, quella di Facebook, e focalizziamoci sul primo riquadro.
Secondo questa tabella, il lavoro di una persona con 10mila follower su questo social vale cento dollari a post.
Ciò significa, nello specifico del Mice, che se una location congressuale, desiderosa di allargare la base utenti, e previa verifica della compatibilità di questi 10mila col proprio target, volesse raggiungere un accordo economico con siffatto “influencer” per due post a settimana – il minimo per dare alla comunicazione la necessaria base di continuità – in un anno (52 settimane) dovrebbe spendere 200 x 52 = 10.400 dollari. Facciamo 10mila, sconto quantità.

Quali sarebbero i risultati attesi? 10mila clienti in più?

Nossignori. Avete fatto i conti senza due osti. Due osti molto grossi.

Il primo è l’EdgeRank, l’algoritmo che regola la diffusione dei post. Come recentemente scritto dall’amico Marco Garavaglia nel suo blog #impressions, la portata organica dei post su Facebook si aggira tra l’1 e il 5 per cento della fan base.

In forza di questo algoritmo, dei 10mila fan di questo sedicente influencer solo 100-500 vedrebbero i post, e mai sempre gli stessi. Cambierebbero di post in post, così minando irreparabilmente la continuità della comunicazione.
Ma voglio essere ottimista e ipotizzare che quei 100-500 effettivi recipienti siano sempre gli stessi.
Anzi, persino eccedo nell’ottimismo e faccio finta che i recipienti siano sempre 500, la cifra massima.
Secondo voi, questi 500 correrebbero in massa ad acquistare?
Lo sapete qual è la ratio tra una call for action e una redemption positiva?
È il 10%. Nel nostro caso, 50 recipienti.
Per di più sto parlando di semplice redemption positiva, ossia di clic sul post. Non certo di acquisto.
Di questi 50 che cliccano, meno della metà chiederanno approfondimenti. Dei 20 che li chiederanno, meno della metà effettuerà una site inspection. E degli otto che effettueranno la site inspection, non esiste alcuna certezza che qualcuno si trasformi in cliente effettivo.
Per cui, anche a voler essere ottimisti – e in questo caso lo sono stato veramente tanto – la conclusione è che quei 10mila dollari somigliano molto più a un green washing che a un investimento.

Mi fermo qui, il discorso è estremamente complesso e non si addice a un blog. Mi basta aver seminato un po’ di food for thoughts.

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