Parliamo di grandi eventi. Che cosa spinge ad andarci? Che cos’è un evento? Cosa emoziona di un evento? Sono le domande cui l’event manager risponde in prima battuta quando si trova di fronte al brief di un cliente. Quale motivo può spingere un partecipante a uscire di casa, prendere la macchina o la metropolitana – o magari anche un treno, un aereo – prenotare un hotel, pur di non mancare? La motivazione dev’essere fortissima. La persona in questione deve spendere dei soldi, forse dormire fuori per una o più notti, prepararsi una valigia, scegliere dove e cosa mangiare fuori dal suo solito entourage famigliare. Perché l’ha fatto? Qual è la molla che sta dietro a tutto ciò? E soprattutto, una volta finito l’evento, dopo averlo vissuto e interiorizzato, memorizzato, quali sono le cose che restano in mente?

Ci pensavo rivedendo la cerimonia inaugurale delle ultime Olimpiadi e paragonandole a quelle di Sochi, le invernali russe passate da un paio d’anni. E facevo dei paragoni in termini d’impatto emotivo, di condivisione di idee generali, di emozioni scatenate dall’una o dall’altra cerimonia.

Pensavo al regista, a chi è stato dietro al pensiero creativo, a quanto ha dovuto mettere di suo per analizzare e scegliere temi che poi, in fondo, colpissero e affascinassero tutti ma prima di tutto lui stesso, pur senza dimenticare che non tutto ciò che gli piaceva poteva poi piacere a tutti. Pensavo alla difficoltà di ricordare che non poteva però separarsi dal ruolo, ovvero essere del tutto vergine alle influenze delle mode o di quanto lo affascina. Altrimenti sarebbe risultato fuori tempo, fuori luogo, non convinto e, di conseguenza, non vendibile. Ricordavo quanto era stato capace di una lacrima (come l’orso che ha chiuso le Olimpiadi invernali di Sochi) e di uno scherzo (sempre a Sochi, la chiusura del 5° cerchio olimpico nella coreografia finale a prendere in giro l’errore vero della cerimonia iniziale). A quanto aveva saputo trasmettere valori, adattandoli al proprio tempo, capendo che il mondo non si ferma dietro un led wall o dietro un sipario.

E così sono andato a ripercorrere un paio di grandi eventi, per trovare lo spunto che sta dietro alla macchina organizzativa. E mi son venuti in mente eventi lontani.

Era il 776 a.C. e in Grecia era tempo di dei e semidei, sacrifici umani et similia. Narra la tradizione che un certo Pelope, figlio di Tantalo, sacrificato agli dei e poi resuscitato da Zeus, abbia organizzato dei giochi per ringraziare il supremo nume dell’Olimpo. In realtà più che i giochi, organizza il gioco, perché la prima Olimpiade si componeva di una sola specialità, la corsa. Anche perché ai tempi l’organizzazione non disponeva di molte risorse (elemento importantissimo di cui parleremo, vedi la voce “budget”), non aveva uno staff (altro punto cardine nell’organizzazione di un evento di successo) e non brillava di molta fantasia. E questo introduce altri due fattori fondamentali per decretare il successo di un evento: l’innovazione e l’interesse.

E le prime Olimpiadi rispettavano questi fattori. Ovvero: a Olimpia per celebrare questo gioco, vengono invitati i migliori atleti di tutto il Peloponneso (che prende il nome proprio da Pelope) e i popoli della Grecia vogliono esserci per vedere… chi corre più veloce. La gara viene vinta da un certo Coroibo, che batte tutti sulla distanza delle “600 orme di Ercole”, circa 200 metri. Non parrebbe una grande innovazione, non ci sono effetti speciali, premiazioni spettacolari, solo una corona di alloro. Ma la manifestazione piace. Se ne parla, cominciano a cantarne storiografi e poeti (che all’epoca sostituivano i nostri giornalisti).

E alle edizioni successive vengono invitati a partecipare anche i re, i principi, e la manifestazione diventa un fenomeno politico, oltreché sportivo. I giochi si arricchiscono di nuove specialità, ci sono momenti per incontri e proposte di alleanze, feste, celebrazioni dei vincitori in modo sempre più sontuoso. Le Olimpiadi diventano un momento di riferimento così grande che, nel periodo designato, veniva indetta la “sacra tregua”, ovvero anche le guerre facevano spazio ai giochi, a testimonianza del loro valore che ormai trascendeva, come diremmo oggi, “target, obiettivi e contenuti.”

Passano i millenni. Siamo in America negli anni sessanta, anzi alla fine degli anni sessanta. I ragazzi hanno scoperto i blue jeans e la musica rock. E si ritrovano a Woodstock per tre giorni in quello che sarà un grande festival rock. Suoneranno tra gli altri Carlos Santana, Jimmy Hendrix, Janis Joplin e si alterneranno sul prato più famoso della storia degli eventi, popolato da centinaia di migliaia di ragazzi giunti da ogni parte dell’America insieme ad alcuni fortunati arrivati dai quattro angoli del mondo. In questa Babele moderna, per tre giorni mangeranno, canteranno, correranno e faranno l’amore nel fango di un prato reso quasi inagibile dalla pioggia (per non correre rischi oggi il Burning Man lo fanno nel deserto, ma di questo ne parleremo tra qualche post).

Che cosa ha unito tutti questi ragazzi? Quali sono gli elementi distintivi di Woodstock? Certamente la musica, un cast unico e irripetibile se non molti anni dopo con l’operazione benefica Live Aid (il 13 luglio 1985, con i due concerti in contemporanea/alternata tra il Wembley Stadium di Londra e il JFK Stadium di Philadelphia). Woodstock è stato “l’evento” musicale fino al Live Aid, e forse anche dopo. Ma questo elemento in sé non sarebbe bastato probabilmente a far muovere quella folla immensa, se alla base non ci fosse stato un elemento distintivo che chiameremo impropriamente “il collante” o il “trait d’union”, la “reason why”, ovvero la motivazione che li ha spinti fino alla piana di Woodstock. E la reason why nel loro caso è stata politica, come sarà poi umanitaria (e quindi nuovamente politica), al Live Aid.

Ecco: questo girotondo di pensieri in fuga mi porta a un assioma che da sempre caratterizza le operazioni in cui sono stato coinvolto, gli eventi che ho fatto: la tecnologia non basta. Ricordo infatti Sochi molto meglio di Rio. Perché la tecnologia e la tecnica di Rio non ha saputo far leva sul mio immaginario, sulla mia capacità di provare emozioni, se non per qualche quadro della cerimonia. A Rio mancava quel collante che invece c’era a Sochi: la novità del luogo, la voglia di figurare, la capacità di stupire con la parte umana invece che solo ed esclusivamente tecnica. Perché, dietro un evento di successo, c’è il coinvolgimento. Dietro anche alla più grande macchina organizzativa al mondo dev’esserci un sentire comune, un toccare le corde del cuore. Magari con uno strumento ipertecnologico. Ma piegato a farti vibrare come essere umano e non come automa.

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