Vi ricordate i classici della commedia all’italiana degli anni Settanta e Ottanta? Film ormai diventati cult, con mostri sacri del cinema per famiglie come Adriano Celentano, Enrico Montesano, Renato Pozzetto, Paolo Villaggio e tanti altri… Le inquadrature spesso indugiavano su bottiglie d’acqua minerale e pacchetti di sigarette, oppure su amari e liquori le cui etichette venivano ostentate a favore di telecamera con ben visibile il nome della marca (a chi volesse fare un tuffo nel passato o approfondire l’argomento, suggerisco una visita al sito di Marcel Davinotti junior e la lettura di “Pubblicità (poco) occulte” e “Quando la sponsorizzazione non tiene vergogna”).

 

Le origini della pubblicità occulta

In quegli anni, in Italia, eravamo ancora agli albori delle sponsorizzazioni e del product placement e la cosiddetta pubblicità indiretta (così come quella occulta) non era ancora regolamentata dalla Legge italiana. A partire dal 25 gennaio 1992, però, con il decreto di “Attuazione della direttiva 84/450/CEE in materia di pubblicità ingannevole”, tutte le forme di promozione non esplicita sono state vietate e la materia è stata regolamentata via via sempre più rigidamente, ponendo un’attenzione particolare ai prodotti cinematografici e televisivi, ma senza esentare dallo stesso rigore né la carta stampata, né la radio, né per estensione i nuovi medium, dai siti web fino ai più recenti influencer di Instagram.

Stupisce allora il candore con cui Chiara Ferragni ha recentemente preso coscienza di essere lei stessa un “medium pubblicitario”, al punto di introdurre – quasi come fosse una sua gentile concessione all’etica – l’hashtag #AD (che sta per “advertisement”) sui post concordati con i brand. E stupisce ancora di più che le Autorità garanti di mezzo mondo ancora oggi si scandalizzino come se avessero scoperto un malcostume impensabile, recente e sporadico.

Un segreto sulla bocca di tutti

Che gli scatti apparentemente rubati alla vita quotidiana degli influencer siano in realtà quasi sempre frutto di accordi commerciali, lo hanno ormai capito anche i sassi. E proprio perché si tratta del segreto di Pulcinella, possiamo concludere tranquillamente che siamo davanti a un falso problema: il pubblico non è più ingenuo e impreparato a fronteggiare un massiccio assalto di input pubblicitari, come poteva esserlo nel negli anni Settanta. Oggi, al contrario, dalla pubblicità occulta dovremmo essere in grado di tutelarci da noi, grazie agli anticorpi sviluppati nel corso degli ultimi 40 o 50 anni.
Quindi, a conti fatti, che si metta o no la scritta “messaggio pubblicitario” sul post di un influencer (o sulla pubblicità dei divani durante un programma tv, o in testa a un pubbliredazionale su un giornale), cambia poco in termini pratici: il lettore, lo spettatore, l’utente sa. E se non sa, perlomeno sospetta.
Il che sposta la questione dalla consapevolezza del consumatore (acclarata), alla consapevolezza dei brand. Lo sanno, cioè, le aziende, che ormai il segreto è disvelato?

 

Il prezzo della credibilità…

Esiste dunque una questione di “convenienza economica” che dovrebbero porsi per primi i brand, in termini di strategia di comunicazione, quando acquistano siffatte… si può dire? Ma sì, dai che si può dire: markette (ci metto una kappa in omaggio al marketing). Che valore ha, infatti, la marketta di un presunto influencer agli occhi di un pubblico ormai sgamato e quindi capace di distinguere fra genuino passaparola e promozione smaccata?

Il Roi è ancora positivo (e se sì, quanto può durare?), considerato che i prezzi si sono alzati e ovviamente continueranno a salire?

Dico “ovviamente”, perché siamo davanti al cane che si morde la coda: gli influencer da qualche tempo hanno seri problemi di visibilità organica (la reach non paid è in calo drastico su tutti i social media), quindi l’unico modo che hanno per mantenere alta la diffusione dei loro post è promuoverli a pagamento. Ovvio quindi che aumentando il costo di “produzione”, aumenti anche il prezzo di “vendita”…

In più, si apre oggi un’interessante prospettiva sul mondo degli influencer prossimo venturo. Oggi, infatti, soltanto chi può contare su denaro a sufficienza per un acquisto massiccio di follower e di like può ancora arrampicarsi in cima della classifica degli influenzatori (o presunti tali). E può farlo pur non avendo né il carisma né il seguito genuino di un vero influencer. Il risultato è presto detto: di veri influencer se ne troveranno in giro sempre di meno, quei pochi saranno sempre più attenti a dosare le markette per non perdere di credibilità e quindi costeranno un occhio della testa.

…e il declino della marketta                     

Al contrario, gli influencer “a buon mercato” finiranno in una spirale viziosa che nel tempo (breve, probabilmente) ridurrà al lumicino la loro credibilità, danneggiando per primi i brand che avranno investito sul “medium pubblicitario” sbagliato. Niente di nuovo, del resto: la marketta di giornalistica memoria – a prescindere che di base fosse commerciale, amicale o di mera propaganda politica – viene oggi additata da tutti gli esperti come uno dei principali responsabili del crollo nel rapporto di fiducia fra cittadini e mezzi di comunicazione, senza distinzione fra carta, radio, tv o web.
Possibile che nel tempo cambino gli strumenti, ma non si riesca mai a imparare la lezione?
E se proprio i ricorsi storici di vichiana ispirazione non ci convincono, che ne dite di tenere a mente almeno quello che si rischia? Una bella sanzione fino a 5 milioni di euro! Bell’affare!

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