Cosa resta di un evento quando si spengono luci e riflettori, quando il mixer allinea a zero i led e le casse acustiche tacciono, quando il regista si toglie cuffie e microfono e si alza dalla regia? Cosa ha costruito un’agenzia? Cos’ha lasciato in dote a chi ha partecipato? Per quanto tempo tutto ciò resterà impresso nel cuore e nella testa degli invitati?
Non sto parlando di Roi dell’evento. Non ci credo. Non penso che esista un metodo per misurare in termini matematici la resa di un evento, mentre credo in quello che è l’impatto emotivo che suggerisce comportamenti subliminali a lungo termine. Ricordo alcune scene de “L’attimo fuggente” con Robin Williams nei panni del Professor John Keating che diceva: «Per comprendere appieno la poesia dobbiamo anzitutto conoscerne la metrica, la rima e le figure retoriche e poi porci due domande: uno, con quanta efficacia sia stato reso il fine poetico e due, quanto sia importante tale fine. La prima domanda valuta la forma di una poesia, la seconda ne valuta l’importanza. Una volta risposto a queste domande, determinare la grandezza di una poesia diventa una questione relativamente semplice. Se segniamo la perfezione di una poesia sull’asse orizzontale di un grafico e la sua importanza su quello verticale, sarà sufficiente calcolare l’area totale della poesia, per misurarne la grandezza... Escrementi! Ecco cosa penso delle teorie di J. Evans Pritchard. Non stiamo parlando di tubi, stiamo parlando di poesia. Ma si può giudicare la poesia facendo la hit-parade? Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; la bellezza, il romanticismo, l’amore, sono queste le cose che ci tengono in vita». Lo applico agli eventi, riconoscendo che il rispetto di brief, budget e obiettivo finale sia un prerequisito di base. Così sgombriamo il campo dagli equivoci.
Ma poi il valore di un evento non è in una formula matematica; è nella poesia stessa dell’evento. In quell’emozione che si insinua sottopelle fino al cuore. In quel tatuaggio di brividi che lo fa ricordare, in quella sensazione di aver partecipato a qualcosa di unico che fa vivere la malinconia, lo spleen, e spinge a volerli ripetere acquistando il prodotto o sentendosi orgogliosi di esser parte della squadra/azienda che ha chiuso la propria convention.
Oggi che sento sempre più clienti lamentarsi che gli eventi sono spesso più dipendenti dalle idee di agenzie più preoccupate delle fusioni e acquisizioni, dei “mol” personali e della propria quotazione economica, del ritorno sul “loro” investimento su quel cliente che non della resa effettiva, credo sia il momento di esaltare quelle “boutique agency” che amano ciò che fanno, che a volte (non sempre e non spesso per fortuna) perdono le gare per aver proposto idee nuove al posto di certezze magari più banali. Quelle agenzie creative che mettono amore e fantasia nei loro progetti. Quelle strutture che fanno “live communication” perché “vivono” la comunicazione e “per” la comunicazione, facendo propria la lezione dell’Attimo Fuggente: metti amore nella tua vita. Ama ciò che fai. Che poi è anche la lezione cattedratica di Steve Jobs all’Università di Stanford nel 2005: «l’unico modo per fare un buon lavoro è amare quello che fate».
Ecco, di fronte al pericolo di affidarsi a chi ha come credo il Dio Mol, penso sia il momento di credere nuovamente nell’amore per l’evento, nell’ossessione della perfezione, emotiva “prima che” e “non solo” tecnica. E credo che ci sia una via per rispettare il budget ma ottenere ugualmente l’obiettivo fissato. Che ci sia una strada che attraverso l’emozione conduce al goal: stay hungry, stay foolish. Perché se ami ciò che fai, lo renderai amabile e amato da tutti.